Una lezione a casa dei Peul…

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Siamo tornati alla scuola di Ouattinoma. Verifichiamo se il muratore ha svolto i lavori all’edificio decisi qualche giorno prima. Poco dopo la scuola, sulla strada che porta al villaggio di Baobané, in lontananza, a sinistra nella “brousse”, avvistiamo un’abitazione Peul. I Peul sono un popolo di pastori nomadi. Per tradizione, al nord del Burkina e in altri Paesi saheliani, si stabiliscono, in certi periodi dell’anno, in prossimità dei villaggi. In tali periodi, pascolano le mandrie di buoi o di capre e montoni appartenenti alle comunità locali. Si guadagnano così il pane quotidiano. Le abitazioni Peul sono delle semplici capanne di paglia a forma di iglù. Hanno un’apertura sul davanti chiusa con un pannello leggero pure in paglia. Lasciamo la Toyota sul bordo della strada. Ci inoltriamo nella “brousse” lentamente e discretamente. Lascio che Mariam ci preceda. Anni addietro, in un’occasione simile, i membri di una famiglia Peul, quando videro che ci avvicinavamo, forse perché “bianchi” (“nassara”), forse impauriti, lasciarono di fretta la loro capanna e si inoltrarono nella “brousse”. A qualche metro dalla loro casa, incontriamo un uomo, certamente il padre, che ci sorride. Ci avviciniamo con lui alla capanna. Davanti all’entrata un bidone giallo e un catino di plastica. Sbucano quattro bambini: tre bambine, una con il fratellino in braccio. Ci scrutano sorprese per l’insolita visita. La bimba che porta il fratellino, avrà 8-9 anni. Orecchini d’argento, torso nudo, collanina di cuoio con un ciondolo color oro. Mariam spiega al padre che siamo passati a salutarli: “gli amici bianchi sono interessati al vostro modo di vivere”. L’uomo sorride cordialmente. Chiediamo di poter scattare delle foto. Il padre ci invita ad entrare nella capanna: una stuoia di paglia per terra, qualche recipiente sulla sinistra (due di zucca, tipici) e una baccinella di plastica verde; un paiolo sulla destra, qualche vestito nell’angolo in fondo. Su un ripiano sottotetto, sostenuto da un intreccio di bastoni legati fra loro, coperti di paglia, una padella senza manico, alcune scodelle. Tutto! Pochi oggetti, tutto! Scatto alcune foto e mi viene naturale il confronto con le nostre ricche e spesso ingombrate abitazioni. Una vita nella “brousse”, il latte delle capre, un po’ di carne, riso comprato nei villaggi o avuto come salario, bacche, un po’ di frutta, cibo essenziale, un fuoco. Lezioni di “decrescita”! Penso alla nostra raccolta degli ingombranti. Ammiro la loro dignità e semplicità. A tal proposito, ripenso a un episodio significativo in occasione di un’altra visita ad un’abitazione Peul, anni prima. Quando chiesi al padre di famiglia se potevo scattargli una foto, mi disse di attendere un momento. Entrò nella sua capanna, si cambiò, uscì e, prima di mettersi in posa per la foto, prese il suo bel montone da un piccolo recinto lì vicino e si piazzò, fiero, tenendolo vicino a sé, per la foto! Poco dopo, alla capanna, giunge anche una donna, certamente la madre dei bambini. E’ sorpresa nel vedere che Mariam è all’interno della capanna, seduta sulla stuoia. Nasce subito, però, una certa complicità fra donne. Mariam scherza con lei. Le dà due biglietti da 1000 FCFA (circa 4 franchi svizzeri), “per i bambini”, le dice. La donna, che ora ha preso in braccio il bimbo che piange, sembra aver paura di noi, ringrazia: “barka, barka”, in moré. Ringraziamo anche noi, salutiamo. Le bambine ci seguono per qualche decina di metri e poi ci guardano mentre ci allontaniamo. E’ l’ora del tramonto. La luce dei tramonti qui in Burkina è stupenda: il riflesso del rosso mattone della laterite, di strade e case, tinge tutto di rosa. Sulla strada del ritorno fotografo il viale di enormi Kaisedra, appena fuori città, che amo fissare sulla pellicola ogni anno, come un rituale. Sono le 23.00. Domani è giorno di saluti e valigie. Gli amici burkinabé mi regaleranno, come ogni anno, numerosi sacchetti di spagnolette zuccherate. Un collaboratore di Zoodo mi ha già regalato due grandi uccelli di legno (neri, gialli e rosa), di gusto discutibile, direi decisamente kitsch. Non so come sbarazzarmene. Il gesto è delicato e merita rispetto, ma proprio non me la sento di mostrarli a mia moglie Magali…

Franco Losa

Sabato 31 gennaio 2015, Ouahigouya