Un inizio di giornata qualunque in Burkina…
E’ notte fonda. Sono a letto, torso nudo, sotto la zanzariera. Ho caldo. Ho sete. Sento i richiami dell’Imam che invita alla preghiera mattutina ad Allah. Saranno circa le 4 e mezzo del mattino. Infilo con attenzione le gambe e poi il busto sotto la zanzariera, abbassandomi il più possibile. Ripiego il tessuto della mia gabbia sotto il materasso per evitare che qualche zanzara vi entri. Cerco con difficoltà l’interruttore. Premo. Miracolo…,il tubo al neon si accende al primo colpo. Per uscire dalla camera, apro la porta di compensato di pessima qualità, sembra di cartone. La maniglia quasi mi rimane in mano. Al momento di coricarmi l’ho chiusa a chiave, altrimenti non rimarrebbe chiusa. Vado in cucina, bevo un bicchiere di acqua minerale. Ritorno a letto. Non riesco a riprendere sonno. Sento il canto del gallo del vicino e poi i ragli di un asino. Dormiveglia. Mi alzo. Sono le 6 e 30. Vado in bagno, l’asta dello sciacquone mi rimane in mano. Due zanzare sulla parete. Meglio fare in fretta per non arrischiare di farmi pungere. Entro in cucina, apro la bombola del gas, appoggio la piccola caffettiera, accendo il cerino, giro l’interruttore del fornello, nulla. Il gas è finito. Decido di arieggiare il locale per sperare di avere un po’ più di frescura durante la giornata. Tiro la tenda, stento ad aprire le ante vetrate a causa dei serramenti in metallo di bassa qualità. Mi dico che sono serramenti simili a quelli della biblioteca di quartiere da noi finanziata. Sollevo la maniglia centrale delle tapparelle per dare aria e luce. La fine rete metallica anti-zanzare è bucata in più punti, passaggi ambiti per mosche e zanzare. Tiro la tenda che separa la cucina dal piccolo atrio che dà sulle due camere, la tenda mi rimane in mano: la stanga di legno che la sosteneva mi cade addosso. Per fortuna è di legno leggero, di bassa qualità. Riaggancio la stanga ai suoi supporti di legno. Ora le file d’immagini di cattivo gusto (mele, ciliegie e grappoli d’uva su grigi vassoi) dondolano di nuovo, leggermente, sulla tenda polverosa. Mi vesto. Nell’atrio spengo il neon che ancora funziona. Chiudo alle mie spalle, con difficoltà, la porta d’entrata in metallo, devo darle una spinta. Faccio per chiudere a chiave, non riesco. La serratura sembra bloccata. Non posso forzare perché la chiave è di latta leggera, come quelle delle nostre buca-lettere, sarà di fabbricazione cinese. Dopo vari tentativi e movimenti rotatori di polso, sfilo finalmente la chiave. Mi torna in mente l’episodio in cui, con la chiave della porta d’entrata della Missione dove alloggiavo, a Ouaga, nel 2000, senza rendermene conto, riuscii ad accendere il motore dell’auto e a partire senza alcun problema. Miracoli burkinabé! In giardino, sulla sinistra, la vecchia 4×4 che anch’io, a suo tempo, guidavo. Alla sua guida, anni fa, rimasi “in panne” in città, in pieno crocicchio; la scatola del cambio era saltata. Ora è un rottame arrugginito senza vetri e gomme, coperto di polvere e laterite, sembra lì posteggiata da sempre. Vicino al portone che chiude il cortile, i soliti sacchetti fini di plastica nera in vari angoli, un bidone sventrato di plastica verde, bottiglie sparpagliate per terra, un groviglio di vecchie biciclette, cerchioni e camere d’aria arrostite dal sole. Accanto, una caraffa zebrata a strisce orizzontali bianche e nere. Sulla destra un bel campo d’insalata giovane e piantine di carote. E’ di Salif, il giovane meccanico di biciclette, guardiano, che dorme nel casotto nell’angolo di giardino. Attraverso la strada. Il polverone sollevato da un grosso camion carico di montoni annulla il senso di freschezza e pulizia mattutina che mi illudevo di conservare ancora per un po’. Thierry mi aspetta accanto alla Toyota 4×4. Mariam arriva: “Bulle! Enlève-toi!”, spingendo decisa a lato con un piede il cane Bulle (“race locale…”). Sale in auto, partiamo per Baporé, uno dei vari villaggi da visitare.
Sono le 14 e 35 ora locale. E’ l’ora della siesta ma non dormo mai, al contrario di Salif che è steso sulla panchina di ferro del giardino, qui fuori, all’ombra dell’albero di mango. Come ogni giorno, ne approfitto per stendere le mie note.
Franco Losa
Mercoledì 28 gennaio 2015