Attentati terroristici, “pugno nello stomaco” per il Paese

kabore

Tutto ha cominciato a Tin Abao, al nord, con l’attacco dei “jihadisti” a un convoglio della Gendarmeria nazionale che ha fatto quattro vittime. In seguito, a Ouagadougou, la capitale, l’hôtel Splendid, albergo di lusso molto frequentato dagli occidentali e dai funzionari delle organizzazioni internazionali, è stato preso d’assalto (venerdì sera e sabato notte 15-16 gennaio) da un gruppo di sei terroristi (quattro uomini e due donne) armati di Kalashnikov. I terroristi hanno aperto il fuoco anche contro gli ospiti del ristorante-bar Cappuccino che si trova in faccia all’albergo Splendid. I morti, purtroppo, sono 29 e di diverse nazionalità (tra cui due noti svizzeri); i feriti 56, parecchi per asfissia da fuoco. Molte persone sono state prese in ostaggio e poi liberate dall’intervento dei militari (francesi, americani e burkinabé). Incendiate una decina di automobili parcheggiate davanti all’albergo. Per coronare il loro funesto disegno, i terroristi hanno rapito a Djibo, il dottor Kenneth Artur Eliott e la sua consorte, umanitari molto apprezzati nella regione. Il loro ospedale, conosciuto per le sue tariffe sociali e che spesso offriva gratuitamente i suoi servizi ai poveri, riceveva pazienti da tutto il Burkina Faso.

Fra i politici, unanimi e ripetuti gli inviti all’unione nazionale di fronte alla barbarie dei terroristi e le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei famigliari delle vittime. Fra la popolazione c’è evidentemente costernazione, sgomento, incredulità, grande tristezza per le famiglie delle vittime e per la situazione del Paese. Un Paese, il Burkina, che stava superando una fase di crisi e sperava in un nuovo corso positivo per la sua popolazione. L’attentato è stato definito da molti, qui a Ouaga, come “un pugno nello stomaco” per il Paese. Le reazioni della gente comune oscillano tra rassegnazione e volontà di risposta. Molti temevano che, prima o poi, i terroristi potessero colpire. Ciò che più ha sorpreso, oltre alla gravità dei fatti, è il momento scelto dai terroristi per passare all’atto.

Due domande centrali emergono dai dibattiti televisivi e sulla stampa in questi due giorni, qui a Ouaga, dopo l’attentato di sabato notte:

(1) “Perché proprio adesso? Come mai finora il Burkina Faso non era mai stato oggetto di attacchi terroristici pur confinando con Mali e Niger ed essendo incuneato fra questi due Paesi ove il terrorismo impera da tempo?”

(2) “In che misura i giovani burkinabé sono implicati e attivi nei gruppi terroristici?”

Le risposte non possono essere dissociate dall’analisi della situazione politica e socio-economica del Paese.

Non dimentichiamo che il Burkina Faso ha attraversato una fase politica molto delicata negli ultimi anni. Il regime di autoritarismo formalmente “illuminato” del presidente Blaise Compaoré durato 27 anni (molti oppositori politici eliminati a cominciare dall’assassinio dell’ex-presidente Thomas Sankara; forte corruzione; gestione famigliare e clanica di interessi del Paese) e il tentativo di modificare l’Art. 37 della Costituzione per prolungare, una volta di più, la durata del mandato presidenziale, ha innescato la reazione della popolazione e dei movimenti giovanili.

Il sollevamento popolare ha portato alla destituzione/fuga del presidente e, in seguito, a un anno di governo di transizione (presieduto da Michel Kafando) con l’obiettivo di giungere all’organizzazione di elezioni democratiche. Poco prima di queste, però, l’ultimo “colpo di coda” dei militari (il corpo di guardia di sicurezza dell’ex-presidente) che, capeggiate dal generale Gilbert Diendéré, fido ex-braccio destro di Blaise Compaoré, ha attuato, lo scorso mese di settembre, un assurdo colpo di Stato per impedire l’organizzazione di libere elezioni. Nuova massiccia reazione della popolazione, specie dei giovani che, con l’appoggio dell’esercito che ha marciato sulla Capitale contro gli uomini di Diendéré, ha permesso di ripristinare il governo di transizione fino alle elezioni.

A seguito di queste, è stato eletto l’attuale presidente del Burkina Faso Roch Marc Christian Kaboré.

Risposta alla prima domanda. Molti esperti concordano nel dire che il regime di Blaise Compaoré ha giocato un ruolo ambiguo nei confronti dei movimenti terroristici della regione del Sahel. Era noto, infatti, che l’ex-presidente e il generale Diendéré, dialogavano con i terroristi, li accoglievano nella capitale (tutti i movimenti “jihadisti” hanno soggiornato nel Paese…), hanno giocato il ruolo di mediatori durante la crisi al nord del Mali e al momento dell’intervento francese (Accordo di Ouaga). I legami occulti stabiliti con loro hanno risparmiato il Paese. Ora che il regime Blaise-Diendéré è terminato, il Burkina Faso, per i terroristi, è diventato “un paese qualunque”, come gli altri della sub-regione. Nessun motivo, dunque, per risparmiarlo dai loro attacchi, oltretutto per il fatto che ospita, sul suo territorio, truppe francesi e statunitensi.

Risposta alla seconda domanda. L’accordo fra gli esperti burkinabé è, purtroppo, unanime. I giovani burkinabé sono implicati nei movimenti terroristici, parecchi di loro non hanno alcuna prospettiva, tranne la povertà, lo sradicamento e la miseria. Non riescono a dar senso alla loro vita. Vivono in uno dei Paesi più poveri al mondo, non hanno né lavoro, né beni materiali, né prospettive di vita. La loro vulnerabilità socio-economica è latente. Sono facilmente preda di ricatti economici (soldi, armi, moto…) e manipolazioni ideologiche o falsamente religiose. Cadono facilmente nelle trappole di chi li sa manipolare.

Quali conclusioni emergono dalle precedenti considerazioni?

Nessun approccio unilaterale, hanno evidenziato vari esperti intervistati, ha mai potuto risolvere il problema. Né l’approccio militare, né quello “securitario”, né quello religioso o diplomatico. E’ necessario un approccio integrato pur nella consapevolezza che il fenomeno durerà nel tempo e che l’azione integrata richiederà tempi lunghi perché “la bestia” è tentacolare, imprevedibile, tagliata una testa ne cresceranno altre. Il fenomeno interroga il senso e i limiti del nostro tipo di società e di civiltà. Bisogna, è stato detto, offrire a questi giovani un mondo più equo; ripensare e ricostruire la rappresentazione di molti giovani, specie di quelli più vulnerabili; “insegnare ai nostri giovani a vivere, non a morire”, a essere non unicamente ad avere

Franco Losa, Ouagadougou, 18 gennaio 2016