La polvere rossa di Ouahigouya


Arrivo all’aeroporto di Ouagadougou alle 20:47. Esco dall’aereo e l’aria calda mi abbraccia. Non c’è tempo per fermarsi ad assaporare il brivido di essere in Africa, la gente scende frettolosamente dall’aereo e si dirige verso il bus. Seguo la massa, mi annuncio alle guardie aereoportuali e aspetto le mie valigie. Dopo un’ora di coda, individuo finalmente la mia valigia marrone e poi quella blu. Carica come un asino, proseguo verso l’uscita. Mi sento un po’ spaesata, non so cosa mi aspetta dall’altra parte e soprattutto chi. Dopo neanche due passi, intravedo un cartello blu scolorito con scritto il mio nome e cognome. Mi sento sollevata.
Thierry si presenta e mi prende le valigie. Lo seguo senza fare domande. All’uscita conosco Fatou, la figlia minore di Mariam. Scambiamo due parole e ci dirigiamo verso l’auto. Le tempie mi pulsano, ho caldo e sento che la stanchezza prende il sopravvento sul resto.
Malgrado questo mio stato d’animo, dico di star bene e osservo la vita oltre il finestrino dell’auto. È buio profondo, qualche lampione qua e là illumina alcuni tratti di strada. La gente si riunisce negli angoli scuri della città, alcuni cucinano al fuoco sul ciglio della strada e altri sfrecciano veloci a bordo delle loro motorette.
Finalmente arrivo al convento dove trascorrerò la prima notte. Thierry porta le mie valigie e Fatou mi accompagna fino alla mia camera. Mi viene offerto un casco di banane, 1,5 l di acqua minerale e la buona notte.
Il giorno seguente Mariam mi raggiunge prima del previsto. Mi cambio frettolosamente, mangio una banana e salgo in macchina. Ascolto i discorsi di Mariam e Thierry come un sottofondo musicale che mi accompagna per le vie della città.
La gente è dappertutto, non esistono strade deserte. Piccole baracche maltenute popolano i bordi delle vie. Ogni due passi, cartelloni rossi con la scritta
Airtel in bianco catturano la mia curiosità. Scopro ben presto che è la compagnia mobile più conosciuta in Burkina.
Camminando tra la gente, mi sento spaesata. I miei occhi vorrebbero soffermarsi sui dettagli, ma la mano di Mariam mi tira verso di sé. Mi protegge, dagli occhi curiosi che sento addosso, dalle moto che sfrecciano senza guardare, dai venditori ambulanti.
Malgrado il disordine e il caos apparente, sembra che tutto funzioni con una certa armonia. Ognuno offre all’altro quello che ha: vestiti impolverati, frutta e verdura apparentemente fresca, telefoni incartati, scarpe da ginnastica nuove fiammanti, uova calde, pane,…
Mi affascina l’eleganza con cui le donne trasportano grossi pesi. Con una postura nobile e una camminata stanca, spariscono tra la folla.
Colori vivaci, motivi diversi e capelli intrecciati caratterizzano la donna. La singolarità che mi colpisce in loro è l’utilizzo delle parrucche. Dentro di me sorgono degli interrogativi: non sarà scomodo? Non pizzica? Come sopporteranno il caldo alla testa?
I bambini invece si mimetizzano con il paesaggio: vestiti sporchi di terra rossa, piedi scalzi e grandi occhi pieni di vita.
La sera cala in fretta. Il sole a partire dalle 17 cambia colore dipingendo il paesaggio di luce arancione.
Immersi in questa atmosfera, ci dirigiamo verso Ouahigouya. I miei occhi sono curiosi e non si stancano di osservare cosa succede fuori dal finestrino.
Mi rendo conto che la vita qui è semplice. Si vive con l’essenziale ma a contatto con gli altri. Si condivide un piatto di cibo, un tappeto su cui sedersi, una tazza di tè e un piccolo schermo illuminato. Con un po’ di tristezza noto una quantità inaspettata di televisori che emergono dall’oscurità.
Il viaggio continua così, tra una comunità e l’altra, e dopo 2 ore e mezza finalmente arrivo là dove trascorrerò i miei prossimi 2 mesi. Ouahigouya é una cittadina più tranquilla. Passeggio per le vie che mi sembrano tutte uguali e mi lascio rincorrere dai bambini che urlano “Nazara”. Inizialmente credevo volesse dire “carità”, ma poi scopro che significa “la bianca”. Sorrido e saluto i piccoli.
I miei piedi si coprono di polvere rossa e la mia pelle sa di sole. Cammino e familiarizzo con l’ambiente circostante. Ai bordi delle vie sorgono piccole baracche che offrono alimenti, ricariche per il telefono, caffè solubile, mobili in legno, riso e cous cous.
Capre solitarie pascolano per la strada in cerca di cibo. Le galline beccano la spazzatura abbandonata qua e là. Cani stanchi si riposano all’ombra degli alberi.
In strada c’è vita. In casa c’è solitudine e l’unica compagnia che sento è il  frigo che borbotta.
Pur sentendomi una vera estranea in un posto che non mi appartiene, sono fiduciosa.  Ben presto questa sensazione svanirà e così potrò finalmente vivere la vera Africa.


Impressioni dal Burkina Faso a cura di Sofia Pawlowski

gennaio 2014